Tikal,Guatemala: Manhattan nella selva

Guardar giù dal Tempio IV, il Tempio del serpente bicefalo, mi mette i brividi. Le scale sono ripide come un precipizio, e là sotto, oltre quei 64 metri che lo fanno alto come un palazzo di venti piani, giace la selva del Petén. Ingarbugliata, ruvida, ancor fiera, nonostante le umiliazioni dei secoli dell’uomo, dei machete e delle seghe elettriche. Me li mette dalla prima volta che ci son salito, i brividi, dieci anni fa, ultima tappa guatemalteca d’un viaggio lungo quanto il Centro America, quando poteva diventare l’ultima della mia vita, grazie a un piede malsicuro su uno scalino sbrecciato, sulla piattaforma di quella che è la piramide più alta del mondo maya. Fino a prova contraria, perché l’archeologia americana è ancora in fasce.

Da quassù è uno spettacolo unico, come d’un mare, d’un cielo capovolto, dal quale sbuca grigia la sagoma crestata degli altri templi, come a spiare, di sopra le nuvole verdi delle chiome, i giochi degli dèi. Dèi che si son solo nascosti, quando è arrivato Gesù Cristo, e che ora, meno timorosi d’essere passati a fil di spada dall’ortodossia cattolica, risorgono dalla terra, trasudano dai templi, loro dimora antica e poi, da secoli, rifugio.

Il sito è uno dei più suggestivi del mondo maya, e del mondo tutto. Piramidi alte come grattacieli, affacciate su piazze tempestate di steli e altari sacrificali moderni, cerchi di pietre tracciati nella polvere, dove la mattina presto o la sera tardi fumano incensi e offerte in natura immolate a quegli dèi. Edifici sacri e profani allineati lungo sentieri di terra, sgretolate avenidas d’una delle città antiche più grandi e prospere del continente. Un complesso ancora costellato di false colline e collinette sotto le quali si cela chissà quanta altra storia.

False colline erano anche i templi che ora si ergono, ripuliti ed eleganti, nelle radure, assediati da visitatori dalla bocca aperta che, visti dall’alto, paion colonne di formicheche s’infilano in ogni anfratto con l’entusiasmo del bimbo che corre tra le stanze d’una nuova casa, a svelarne i segreti. “Qui attorno non c’era che selva. Come quella che vedi a perdita d’occhio. Non avevamo neanche l’acqua. Non esistono pozzi o fiumi, nemmeno sotterranei,” racconta Julio. “Non ci sono mai stati. A Tikal, anzi a Mutul, il suo vero nome antico, raccoglievano l’acqua piovana in enormi cisterne, e ora abbiamo dovuto far lo stesso. Me lo racconta sempre, mio zio. Sapevi che è stato lo scopritore della Stele 22?”

Julio è il direttore, nonché nipote del fondatore del Jungle Lodge, la migliore sistemazione dei paraggi, e la più vecchia, all’interno del sito, con i bungalow sparsi tra gli alberi. Fu suo zio, Antonio, Toño, Ortiz Contreras, che ottenne l’autorizzazione per costruirlo accanto alle rovine, naturale sviluppo del campo che ospitava la missione archeologica che tra il 1956 e il 1970 ha riportato alla luce gran parte di questa meraviglia. Era il ‘capoccia’ di tutti i lavoranti, Toño, e i professori della University of Pennsylvania, artefici del miracolo, confidavano nei suoi servigi. Gli volevano bene. Sulle pareti del suo hotel s’allineano fotografie dell’epoca, che ritraggono bande d’operai, scavi, professori, tende…successi. Insieme a visioni di foresta dalla quale trapelano le pulsazioni della storia come uno sguardo intenso tra ciuffi scompigliati. Davanti a quelle foto mi sento un granello di polvere nell’abisso del tempo, piccolo e insulso. Accecato dalla nebulosa storica che avvolge i millenni prima di Colombo, percepisco il mistero che esala dal sottosuolo di questo continente americano, ancora infante per quel che riguarda la ricerca archeologica. Tutto sommato, i luoghi delle civiltà scomparse non sono tanto diversi da quelli in cui non sono ancora state. Quel che era grezzo prima dell’uomo, torna grezzo quando l’uomo se ne va.

E allora, sotto la zanzariera del mio letto nel bungalow in mezzo alla foresta, svegliato nel cuore della notte dal terrifico ruzzare d’una banda di scimmie urlatrici, il pensiero torna a tutte le città, reali o mitiche, che potrebbero affiorare se l’involucro di terra e vegetazione fosse d’un tratto spazzato via da un catastrofico uragano, uno dei tanti che battono stagionalmente la regione. Cibola, Aztlan, Manoa, l’El Dorado, il Paititi… E penso: e se un giorno o l’altro ne venisse fuori Atlantide?

 

Un viaggio in Guatemala, Mess ico e Honduras

LUOGHI SACRI TRA FORESTE E FIUMI (Kel 12)

1° giorno – Volo per Città del Guatemala via Madrid con arrivo in serata.

2° giorno – Chichicastenango: il mercato indigeno e le chiese.

3° giorno – In barca sul Lago Atitlan, visita dei piccoli villaggi sulle sue sponde.

4° giorno – Antigua: la città più affascinante del Guatemala, ricca di testimonianze coloniali.

5° giorno – Lungo la Carretera Atlantica verso Copàn in Honduras, “l’ateneo del Mondo Maya”.

6° giorno – Le steli di Quiriguà e Livingston, comunità garifuna raggiungibile solo per vie d’acqua.

7° giorno – Navigazione nel Parco Rio Dulce e attraversamento della Foresta del Petén fino a Tikal.

8° giorno – Tikal: la città più grande della civiltà Maya. Pernottamento all’interno del Parco Archeologico.

9° giorno – Il sito di Yaxchilan, “Gioia Perduta nella Foresta”. Attraversamento della frontiera con il Messico.

10° giorno – La raffinata città sacra Maya di Palenque, tra il verde della Selva Lacandona.

11° giorno – Campeche e le sue architetture coloniali. Partenza per Merida con visita di Uxmal.

12° giorno – Chichen Itzà, il più famoso sito archeologico della civiltà Maya.

13° giorno – Le rovine di Tulum, direttamente sul mare. Volo da Cancun a Città del Messico.

14° giorno – Città del Messico, lo Zocalo e il Museo di Antropologia. Il sito di Teotihuacan, “la città dove gli uomini divengono Dei”.

15° giorno – Partenza con il volo per Madrid.

16° giorno – Arrivo in Italia.

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