Viaggio in Guatemala, il paese che non vedi mai uguale!

Senti che la terra è viva perché l’aria si fa tiepida sfiorandola. Qualche metro sotto di noi il magma sta ancora raffreddando. Eccolo, il vulcano Pocaya, nerastro sulla foresta, col suo ampio cratere. È alto, lontano, e non possiamo avvicinarci troppo, ma poco importa. Seduti sulle rocce con le scarpe ormai da buttare, aspettiamo che scenda la notte sull’eruzione e sulle luci di Ciudad de Guatemala, un alone brillante a valle, sormontata da un secondo vulcano.


Ovunque io guardi incontro uno di questi colossi, per lo più spenti, neanche fossimo al bordo di una fucina. Poi si alza la luna, proprio sopra la città, baluginando dietro alle nubi. La colata del Pocaya s’accende sul fianco della montagna e come sempre mi ricorda il sangue. Una ferita sulla terra che vacilla, liberando massi incandescenti. Allora è il momento di andarsene. Diventiamo una fila di torce nel deserto, poi tra gli alberi. Sembra d’essere parte di un buio che grida, stranamente pacifico, con le guide che raccomandano attenzione, di non distrarsi e guai a uscire dal gruppo. La luna ci accompagna a valle e il tremore del vulcano scompare presto. Ti volti e la colata già non si distingue più. Solo lo sbuffo dal cratere, come un colpo di vento nel cielo limpido.

ANTIGUA
Di solito si sale al Pocaya partendo da Antigua, la più nota città del Guatemala. Era l’antica capitale, prima di conoscere incuria e abbandono in seguito a una serie di gravi terremoti avvenuti durante il periodo coloniale. Eppure la bella e testarda Antigua, dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, è sempre risorta dalle proprie ceneri, senza nascondere quelle cicatrici che le danno fascino e personalità. Come si coglie nella Catedral De Santiago, del 1542, distrutta dal terremoto del 1773 e solo in parte ricostruita. Dietro all’edificio è possibile fare due passi tra le rovine dell’antica cattedrale con la sua volta crollata, tra quel poco che resta di dorate raffinatezze barocche. Nei tempi di massimo splendore si contavano ad Antigua decine fra chiese e monasteri, alcuni dei quali ci sono ancora. Di nuovo, alzando gli occhi, i vulcani. Sono addirittura tre, visibili da ogni angolo della città. Si tratta del Volcán Fuego, dell’Acatenango e infine il gigante, l’Agua.Simmetrico, solenne, un’ombra elegante che domina l’abitato da sui quasi 4000 metri di altezza. Anche qui si può salire fin sul cratere per ammirare il mare di nuvole che si distende sulle città dell’altipiano.

Colline, villaggi coi tetti di terracotta e coltivazioni di mais. La tradizione Maya racconta che l’umanità venne creata proprio a partire dal mais, la cui presenza caratterizza ancora oggi vaste regioni del Guatemala. Lo spagnolo è poco parlato, nonostante sia la lingua ufficiale, e sono diffusi vari idiomi indigeni. La gente veste spesso abiti tradizionali, coloratissimi. Ogni villaggio ha il proprio stile. Attraversando in autobus i campi ti ubriachi di verde; poi quando il cielo si chiude e sale la nebbia, cosa che può accadere piuttosto rapidamente, l’altopianoprende un’aria misteriosa. Per questo dicono che il Guatemala cambia tutti i giorni e nessuno le vede uguale due volte.

La considerazione è tanto più vera per il Lago de Atitlán.Definito dall’esploratore del XIX secolo John L. Stephens lo spettacolo più grandioso che abbiamo mai visto, e semplicemente troppo bello dallo scrittore Aldous Huxley, il lago si è formato in seguito a un’eruzione avvenuta migliaia di anni fa. È circondato da tre vulcani spenti, ammantati di vegetazione, che grazie anche al colore verde-azzurro delle sue acque donano uno scenario di grande armonia. Il lago regala il meglio di sé all’alba, quando la sua superficie si confonde nella foschia; è adesso che il profilo sfocato dei vulcani, le piccole imbarcazioni che prendono il largo dai numerosi villaggi, le donne che si avviano al molo raccontano in controluce l’anima del luogo.

Il lago Atitlan è una gemma fragile e preziosa, che negli ultimi anni sta soffrendo gli eccessi di un certo turismo irresponsabile. Non dimentichiamo che siamo nel cuore della terra dei Maya. Adiamo e torniamo quindi senza lasciare traccia, come si trattasse di un santuario; portiamo con noi solo il ricordo, insieme a un pugno di silenzio coronato di nebbia.

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